Iran: trenta "madri in lutto" di manifestanti uccisi arrestate
Pubblicato rapporto commissione d'inchiesta parlamentare: "Abusi e violenze nelle carceri iraniane"
Prosegue senza sosta e senza remora alcuna la stretta repressiva del governo iraniano contro ogni forma di dissenso. A farne le spese, stavolta, un gruppo di mamme i cui figli sono stati uccisi nelle manifestazioni di piazza organizzate lungo le strade della capitale iraniana nelle settimane addietro. Ieri, una trentina di donne appartenenti all’organizzazione “madri in lutto”, nata proprio con lo scopo di riunire familiari e parenti dei ragazzi vittime della pressa governativa e con l’obiettivo di fornire sostegno, sono state tratte in arresto dalle autorità iraniane con l’accusa di aver messo in piedi “proteste illegali”. Le mamme, racconta il sito web riformista Kaleme ( il primo ad aver riportato la notizia del loro arresto), come ogni sabato erano solite radunarsi all’interno del Parco Laleh, nel centro di Teheran, per ricordare i loro figli uccisi e trucidati dal regime di Ahmadinejad e chiedere giustizia. All’improvviso, precisa sempre il sito riformista sulla base di alcune testimonianze, un centinaio di agenti delle forze di sicurezza in divisa e in borghese ha fatto irruzione all’interno del parco attaccando il gruppo di donne e costringendole con la forza ad abbandonare i loro sit-in di protesta. Alcune sono riuscite a fuggire, mentre una trentina sono state fermate, caricate sui furgoni della polizia e trasportate presso la stazione di polizia di Vozara per essere interrogate.
Non è la prima volta che in Iran il governo infierisce sui parenti delle vittime che chiedono giustizia per i loro figli. Già lo scorso 7 dicembre una decina di madri erano state arrestate per essersi riunite all’interno del parco Laleh e aver promosso manifestazioni di protesta contro il regime. La notizia, anche in quel caso, venne riportata dall’altro sito riformista “Mowjcamp”. Le madri, come accaduto ieri, accortesi dell’incursione di agenti in divisa e in borghese tentarono di difendersi e resistere, ma inutilmente. Dieci di loro finirono in manette.
Alla notizia degli arresti effettuati tra le madri delle vittime, si aggiunge la denuncia del parlamento iraniano circa i maltrattamenti inflitti agli arrestati nelle manifestazioni d’opposizione dell’estate scorsa. Nel rapporto finale stilato dalla commissione d’inchiesta e reso pubblico proprio ieri, emerge che tre manifestanti arrestati in precedenza sono stati uccisi in seguito. Alla luce dei fatti, sembrerebbe prendere corpo la reale e inumana condizione di vita dei detenuti politici rinchiusi nelle carceri iraniane. In particolare, a finire sotto inchiesta il centro di detenzione di Kahrizak , a sud di Teheran. Difatti, non si esclude che all’interno delle celle i prigionieri abbiano subito abusi e torture. Non deve nemmeno sorprendere, stando alle informazioni fornite dai siti web d’opposizione, che ad esse si debbano affiancare le innumerevoli sparizioni senza motivo di persone considerate scomode e pericolose dal regime iraniano, registrate in questi sette mesi.
Ma l’Onda Verde iraniana resiste. Come un fiume in piena travolge ostacoli e barriere umane con addosso divise militari e con in braccio armi da fuoco. Travalica i confini della censura imposta dal regime, diffondendo immagini scioccanti intrise di violenza e inumanità, ma ricche di un significato riassumibile in due sole parole: “morire per la libertà”.
Dal 12 giugno 2009 (data delle elezioni presidenziali che hanno riconfermato Ahmadinejad alla guida della Repubblica Islamica dell’Iran) fino ad oggi, giovani di ogni fascia d’età desiderosi di cambiare la realtà dei fatti o almeno provarci, sono scesi in piazza sfidando il governo senza alcun timore di finire stritolati nelle trappole piazzate ad ogni angolo della città: come i fucili puntati ad altezza d’uomo o i manganelli, che come mannaie affilate, si abbattevano alla cieca sulla folla di manifestanti. Intanto la comunità internazionale è rimasta a guardare, limitandosi ad accusare il governo iraniano “di aver violato i diritti umani fondamentali”. Una ricusa nella prassi non ha sortito alcun effetto.
Pamela Schirru
Pubblicato il 11 Gennaio 2010
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